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Anonimato degli elaborati scritti.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n.5107 del 11 maggio 2004, ha statuito che la regola dell’anonimato degli elaborati scritti, nelle procedure concorsuali non può essere intesa in modo tanto tassativo ed assoluto tale da comportate la invalidità delle prove ogni volta che sussista una astratta possibilità di riconoscimento, ma è necessario che emergano elementi atti a provare in modo inequivoco la “intenzionalità” del concorrente di rendere riconoscibile il suo elaborato.

Consiglio di Stato
Sezione quarta
Decisione 11 maggio-6 luglio 2004, n.5017
(Presidente Trotta – Estensore De Felice)
Fatto La sentenza di primo grado ha accolto il ricorso, presentato da dieci candidati agli esami per l’ammissione alla professione di procuratore legale presso la Corte d’appello di Roma, contro i provvedimenti di annullamento della prova scritta adottati dalla Commissione esaminatrice.
Tale provvedimento era stato adottato in seguito all’accertamento del fatto che le buste interne, contenente le schede segrete nelle quali erano riportate le generalità del candidato, erano aperte in violazione del disposto di cui all’art. 22 Rd 37/1934.
A giudizio della commissione tale fatto integrava gli estremi della riconoscibilità dei candidati, i cui elaborati andavano pertanto annullati ai sensi dell’art. 23 ultimo comma Rd 37/1934.
La sentenza di accoglimento veniva motivata sulla base della osservazione che la scollatura della busta relativa ad un elaborato del concorrente non assurge ad elemento di differenzialità integrante segno di riconoscimento, nell’ambito di una tornata concorsuale in cui, come verificato “a posteriori”, tale inconveniente della apertura delle buste avrebbe riguardato ben cinquanta candidati, le cui prove erano state annullate.
Il ricorso veniva accolto per quanto riguarda la ricorrente Di Tomassi Rosanna, che aveva superato le prove alle quali era stata ammessa con riserva, mentre veniva dichiarato improcedibile per gli altri ricorrenti, che, o non avevano superato l’esame, a seguito della correzione degli elaborati, o che, pur ammessi agli orali, non li avevano poi superati.
L’appello del Ministero è fondato sul difetto di motivazione della sentenza, in quanto non è dato rinvenire alcun nesso tra il numero degli annullamenti per cosiddetta busta aperta e la violazione della par condicio.
La unica regola che avrebbe dovuto seguire il giudice è quella della violazione dell’anonimato.
Né significa alcunché in fatto il numero di cinquanta candidati in un esame riguardante migliaia di persone.
Gli appellati si sono costituiti chiedendo il rigetto dell’appello.
Alla udienza pubblica dell’11 maggio 2004 la causa è stata trattenuta in decisione.
Diritto Nella specie, l’amministrazione aveva inteso violato il principio dell’anonimato nell’esame di abilitazione forense, perché era avvenuta la scollatura delle buste interne, il cui contenuto era accessibile.
La sentenza di primo grado ha accolto il ricorso, sulla base del ragionamento che la avvenuta scollatura, per le circostanze in cui era avvenuta (aveva interessato cinquanta candidati tra migliaia di candidati e di elaborati), non assurgeva ad elemento di differenzialità tale da integrare il segno di riconoscimento.
Il Ministero appella la suddetta sentenza, ritenendola ingiusta e non motivata.
L’appello è infondato.
L’art. 22 Rd 37/1934, per l’esame di abilitazione alla professione forense, stabilisce il sistema delle buste, la più grande, nella quale sono inserite le prove senza apposizione di nomi o contrassegni, e la busta piccola, che contiene la indicazione del nome, cognome, data di nascita e residenza su apposito cartoncino, da inserire nella busta grande.
L’art. 23 ultimo comma Rd 37/1934 stabilisce, come sanzione, che deve essere annullato l’esame dei candidati che «si siano fatti riconoscere».
Nonostante tali dati normativi, tesi a garantire la regola dell’anonimato degli elaborati scritti, nelle procedure concorsuali tale regola non può essere intesa in modo tanto tassativo ed assoluto da comportate la invalidità delle prove ogni volta che sussista una astratta possibilità di riconoscimento, giacché non si potrebbe mai escludere “a priori” che un commissario sia in condizioni di riconoscere una particolare modalità di stesura.
Sulla base di tale principio, questo Consesso (sentenze sezione sesta 5284/03, sezione quinta 5132/02) ha ritenuto, che al fine di affermare la riconoscibilità e quindi la invalidità della prova scritta, è necessario che emergano elementi atti a provare in modo inequivoco la “intenzionalità” del concorrente di rendere riconoscibile il suo elaborato.
Né vale in contrario la menzione di precedenti giurisprudenziali, anche di questo Consiglio di Stato (sezione quarta 853/84) nel senso di ritenere nulla la prova scritta, nel caso di trasparenza delle buste, che consentono la individuazione del candidato, anche in mancanza della prova che tale individuazione sia avvenuta in concreto da parte della commissione aggiudicatrice, in quanto, in tale altra ipotesi, l’annullamento, pur se non dipendente dal comportamento del candidato, riguarda la intera gara, che verrà quindi ripetuta, con rispetto della par condicio.
Pertanto, anche se la chiusura della busta piccola è attività spettante al candidato (art. 22 Rd su citato, comma 2), unitamente alla introduzione dei fogli, non può farsi ricadere sugli stessi candidati (nella specie, cinquanta su migliaia) il rischio consistente nella scollatura delle buste, non derivante, verosimilmente, dalla volontà, né tantomeno dalla “intenzionalità” degli stessi, che semmai, hanno interesse e volontà contrari, al fine di salvaguardare la integrità delle loro prove.
La norma in materia (art. 23 sopra citato) fa riferimento al fatto che il candidato «si sia fatto riconoscere», sicché la sanzione della esclusione sembra ricondursi ad una precisa volontà, e non può essere giustificata dalla mera accidentalità o dal caso fortuito.
Le considerazioni che precedono impongono il rigetto dell’appello.
La condanna al pagamento delle spese di giudizio segue la soccombenza; esse sono liquidate nell’importo in dispositivo fissato.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso proposto dal Ministero di Grazie e Giustizia nei confronti della sentenza del Tar Lazio sezione prima 1080/94, così provvede:
rigetta l’appello e per l’effetto conferma la sentenza impugnata.
Condanna parte appellante al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in complessivi euro tremila.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.