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Giurisprudenza sull'assegno di invalidità

Cassazione Civile Sent. n. 4046 del 27-02-2004

COMMENTO: La definizione dell’incapacità al lavoro.

La Corte di Cassazione riconosce la pensione di inabilità all'assicurato che sia nell'impossibilità assoluta e permanente a svolgere qualsiasi attività lavorativa, per attività lavorativa si devono intendere le attività confacenti alle attitudini dell'assicurato non usuranti, e non dequalificanti; tale attività deve avere il requisito della remuneratività deve trattarsi di proficuo lavoro, idoneo ad assicurare una remunerazione sufficiente a garantire un'esistenza libera e dignitosa, secondo il parametro dell’art. 36 della Cost., quindi, l’impossibilità a svolgere attività lavorativa, deve essere considerata sulla scorta della situazione concreta.

Svolgimento del processo

Il Pretore di Campobasso ha rigettato la domanda di D'A.D. volta al riconoscimento del diritto alla pensione d'inabilità, in quanto la c.t.u., pur avendo riconosciuto una sua grave invalidità, non aveva ritenuto la stessa superiore alla misura dell'80% e quindi non del tutto riduttiva della capacità lavorativa.

Il D'A. ha proposto appello, lamentando l'erroneità della sentenza impugnata in quanto la capacità al lavoro andava verificata in concreto; le patologie riscontrate nell'appellante rendevano quest'ultimo di fatto del tutto incapace di svolgere attività lavorativa, così facendo sorgere il diritto alla pensione d'inabilità. Il Tribunale di Campobasso, svolta nuova C.T.U., ha rigettato l'appello, con sentenza 18 gennaio/16 maggio 2001.

La c.t.u. svolta in secondo grado ha accertato che D'A.D. è affetto da "epatopatia cronica alcool correlata; ipertensione arteriosa; arteriopatia obliterante degli arti inferiori; bronchite cronica enfisematosa; iperglicemia" e che tale complesso patologico incide sulla capacità di lavoro dell'appellante in misura superiore ai due terzi, ma non la impedisce in modo totale e permanente.

Ciò posto in fatto, il Tribunale ha rilevato in diritto che la legislazione vigente ha distinto le ipotesi di patologie riduttive di due terzi della capacità lavorativa, da quelle che eliminano del tutto tale capacità, facendo corrispondere alle prime il diritto all'assegno d'invalidità ed alle seconde il diritto alla pensione d'inabilità. Il Tribunale ha ritenuto che tale volontà legislativa è chiaro indice dell'impossibilità di assimilare una grave ma parziale invalidità ad una totale inabilità lavorativa, rendendo nel caso di specie l'appellante invalido e con diritto all'assegno d'invalidità, peraltro già corrisposto allo stato attuale, ma non inabile e quindi privo del diritto alla pensione d'inabilità.

In subordine ha rilevato che il D.A. non ha fornito la prova che la sua invalidità parziale provoca una impossibilità assoluta di proficuo lavoro.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione D.A.D., con unico motivo. L'Istituto intimato si è costituito con sola procura.

Motivi della decisione

Con unico motivo di ricorso il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2 legge 12 giugno 1984, n. 222; motivazione omessa insufficiente e contraddittoria in ordine a punti decisivi della controversia ( art. 360 c.p.c., n. 5), censura la sentenza impugnata per avere negato che la rilevante, anche se non totale, riduzione, della capacità lavorativa comporti per il ricorrente, che è manovale edile, la impossibilità assoluta di proficuo lavoro.

Assume che l'impossibilità lavorativa, cui l'art. 2 legge 12 giugno 1984, n. 222 collega il diritto alla prestazione previdenziale della pensione, è nozione diversa da quella puramente sanitaria, ed implica valutazioni anche di altra natura, in particolare concernenti la conservazione di una capacità lavorativa residua idonea a consentire un proficuo lavoro.

Il motivo non è fondato.

La legge 12 giugno 1984, n. 222 ha innovato la precedente disciplina della invalidità pensionabile sotto due profili principali: ha sostituito alla nozione di capacità di guadagno, che implicava la rilevanza del mercato del lavoro, quella di capacità di lavoro; ha distinto le due ipotesi della invalidità, consistente nella incapacità parziale, che da diritto all'assegno ordinario di invalidità, e della inabilità, consistente nella impossibilità assoluta e permanente di svolgere qualsiasi attività lavorativa, che da diritto alla pensione di inabilità.

La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito importanti questioni interpretative della L. n. 222 del 1984: a) l'art. 2, il quale riconosce la pensione di inabilità all'assicurato che sia nell'impossibilità assoluta e permanente a svolgere qualsiasi attività lavorativa, va interpretato nel senso che per attività lavorativa si devono intendere le attività confacenti alle attitudini dell'assicurato (Cass. 17 marzo 1994 n. 2558), non usuranti (Cass. 29 aprile 1998 n. 4396), e non dequalificanti (Cass. 25 gennaio 2001 n. 1026); b) tale attività deve avere il requisito della remuneratività, o come si è detto con formula icastica, deve trattarsi di proficuo lavoro, idoneo ad assicurare una remunerazione sufficiente a garantire un'esistenza libera e dignitosa, secondo il parametro dell'art. 36 Cost. (Cass. 26 febbraio 1993 n. 2367; Cass. 1026/2001 cit.); c) l'impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività lavorativa deve essere valutata secondo un criterio concreto, ossia avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto (Cass. 2558/1994 cit.; Cass. 4 agosto 1994 n. 7222; Cass. n. 4396/1998 cit.; Cass. 30 maggio 2000 n. 7212, che ha cassato la sentenza impugnata la quale aveva negato il diritto alla pensione di inabilità in una fattispecie di riduzione della capacità di lavoro del 90%); d) ne consegue che, pure una riduzione della astratta capacità di lavoro inferiore al cento per cento può comportare il diritto alla pensione di inabilità, se impedisce in concreto la possibilità di svolgere qualsiasi proficuo lavoro (Cass. 7212/2000 cit.); e) il giudice del merito il quale, discostandosi dalla ctu che ha accertato una grave infermità, neghi il diritto alla pensione di inabilità, deve indicare il possibile impiego delle asserite residue energie lavorative (Cass. 2558/1994 cit.). Alla luce dei principi sopra riassunti, risulta errata l'affermazione della sentenza impugnata "Non si può condividere l'assunto di parte ricorrente secondo cui una grave invalidità debba essere ritenuta coincidente ad una invalidità assoluta quando escluda di fatto la capacità di svolgere attività lavorativa proficua e redditizia"; sicché si deve correggere la motivazione, nel senso sopra esposto, ai sensi dell'art. 384 c.p.c.

La sentenza impugnata, infatti, resiste alla impugnazione del ricorrente, in quanto è valida la seconda motivazione, secondo cui il ricorrente non ha fornito la prova della impossibilità assoluta.

Su tale specifico punto, se sia il giudice a dovere motivare il possibile impiego delle asserite residue energie lavorative, o se sia il lavoratore a dovere provare che la capacità parziale comporta in concreto l'impossibilità di svolgere qualsiasi proficuo lavoro, non vi è contrasto con la giurisprudenza citata al punto e), perché tutto dipende dall'accertamento compiuto nel processo.

Nella fattispecie esaminata da Cass. 1026/2001, il giudice del merito aveva disatteso il giudizio peritale, coincidente con quello della commissione di invalidità civile, di totale inabilità, e pertanto si spiega il principio affermato dalla Corte di obbligo motivatorio a suo carico delle affermate residue capacità lavorative.

Viceversa, ove la ctu di primo grado abbia accertato una invalidità dell'80%, come nella specie, ed il giudice abbia condiviso tale motivazione rigettando la domanda di pensione di inabilità, è onere dell'assicurato ricorrente, derivante dal sistema delle impugnazioni, non solo di proporre la questione di diritto, risolta in questa sede in senso a lui favorevole, ma anche di indicare la prova della sua impossibilità totale a svolgere qualsiasi proficuo lavoro, in difformità dalla decisione impugnata.

Proprio la giurisprudenza citata supra sul giudizio concreto, comporta che anche le censure dell'assicurato siano concrete, e formulate in relazione al caso specifico.

A tale scopo non può essere sufficiente l'affermazione che egli è manovale edile, perché si risolverebbe nella affermazione generale che tutti i manovali edili con invalidità dell'80% hanno diritto alla pensione di inabilità, il che violerebbe la distinzione tra invalidità e inabilità introdotta dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, ed implicherebbe un surrettizio ritorno alla nozione di capacità di guadagno dalla stessa legge soppressa, per il suo riferimento alle condizioni del mercato di lavoro. Il ricorso deve essere per tale motivo respinto. Nulla per le spese, non essendosi l'Istituto intimato costituito né avendo svolto attività defensionale all'udienza.

P.Q.M.

La Corte,

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 30 ottobre 2003.

Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2004

Cassazione Civile Sent. n. 3456 del 24-03-1995

Svolgimento del processo

Con sentenza del 23 gennaio - 29 giugno 1992 il tribunale di Grosseto ha confermato la decisione del Pretore della stessa città, che aveva rigettato la domanda proposta da Simone Bellini diretta ad ottenere il riconoscimento del diritto alla pensione di inabilità e la condanna dell'INPS alla corresponsione della correlativa prestazione. Nel pervenire a tale soluzione il giudice d'appello ha osservato che il Bellini non aveva diritto alla prestazione richiesta attesa la non teorica ma reale possibilità che lo stesso, anche nella condizione fisica pregiudicata delle riscontrate infermità, non fosse inabile ai sensi dell'art. 2 della legge n. 222 del 1985 per essere ancora in grado (così come da un punto di vista strettamente medico riferito dal c.t.u.) di svolgere una qualche non gravosa attività lavorativa in un settore affine a quello agricolo, già esercitato in precedenza ed in ambito spaziale non disagevole, stante il possesso di un immobile con destinazione agricola. Ha aggiunto ancora il tribunale che la lettura del già citato articolo 2 della legge n. 222 del 1984 non poteva, in ogni caso, condurre all'accoglimento della tesi che il concetto di inabilità da essa introdotto finisca per ricomprendere ogni soggettiva inidoneità lavorativa dipendente da situazioni psicofisiche di per sé non assolutamente preclusive ovvero, addirittura, ogni stato di disagio rispetto a prospettive lavorative pur compatibili con il quadro nosologico specificamente accertato.

Avverso tale sentenza Simone Bellini propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

Resiste con controricorso l'INPS.

Il ricorrente ha depositato memoria difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza del Tribunale per omessa ed insufficiente motivazione, in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c., e con il secondo motivo lamenta invece violazione ed errata interpretrazione di norma di legge (art. 2 della L. 12 giugno 1984 n. 222) in relazione all'art. 360 c.p.c. n. 3.

In particolare il ricorrente osserva che il giudice d'appello, con il sostenere che fosse comunque consentita "una qualche non gravosa attività lavorativa in un settore affine a quello agricolo", aveva travisato le conclusioni del consulente d'ufficio. Questi infatti aveva categoricamente escluso che esso ricorrente potesse svolgere il suo lavoro di operaio agricolo o coltivatore diretto, ipotizzando unicamente la compatibilità delle sue condizioni fisiche con attività di tipo sedentario (telefonista, segretario, dattilografo, portiere) ma aveva, nello stesso tempo, ritenuto poco probabile che "il periziando, tenuto conto dell'età, del basso livello culturale e dell'attività lavorativa svolta", potesse trovare un lavoro del genere. Contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, il C.T.U. aveva, pertanto, evidenziato che lo svolgimento di attività sedentarie, teoricamente possibile, era però in concreto precluso dal fatto che al Bellini, per le sue condizioni cliniche erano sconsigliati lunghi viaggi di spostamento, soprattutto se giornalieri. Aggiunge ancora il ricorrente che il giudice d'appello era incorso in un errore di motivazione per non avere fornito riferimenti concreti in relazione alla "non gravosa attività lavorativa" suscettibile di essere svolta dall'assicurato, laddove tali riferimenti si rivelavano necessari in considerazione del fatto che tale attività non poteva individuarsi in ruoli "marginali" o in compiti "amatoriali", ma doveva comunque caratterizzarsi per fornire un apporto reddituale apprezzabile. In altri termini, sulla base del dato normativo, per escludersi il diritto alla pensione di inabilità doveva sussistere una concreta possibilità per l'assicurato di svolgere una attività lavorativa, non potendo tale possibilità rimanere sul piano puramente teorico, perché una diversa opinione avrebbe finito sostanzialmente per vanificare un diritto costituzionalmente garantito.

I due motivi del ricorso - da esaminarsi congiuntamente per la stretta interelazione riscontrabile tra interpretrazione del dato normativo e motivazione della decisione censurata - vanno pienamente condivisi.

Va in primo luogo precisato che l'impossibilità (assoluta e permanente) a svolgere qualsiasi attività lavorativa, prevista dall'art. 2 della legge 12 giugno 1984 n. 2228 (revisione della disciplina della invalidità pensionabile) ai fini del riconoscimento della pensione ordinaria di inabilità, deve essere valutata con esclusivo riferimento a tutti i lavori proficui - capaci cioè di costituire fonte di guadagno per l'assicurato - e non invece in relazione ad ogni diversa attività lavorativa che, per essere svolta per soddisfare esigenze vitali di esclusivo carattere personale ed interessi non patrimoniali, si caratterizza per modalità ed aspetti meno gravosi ed afflittivi di quelli caratterizzanti i lavori istituzionalmente destinati a creare ricchezza e ad assicurare un reddito a quanti detti lavori svolgono. In una fattispecie riguardante il riconoscimento della pensione ordinaria di inabilità a favore di una ex operaia, questa Corte ha già statuito come il criterio dell'impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa debba - appunto - riferirsi esclusivamente ai lavori proficui e, sulla base di tale principio, ha poi affermato - nel caso sottoposto al suo esame - che l'inabilità non poteva essere esclusa per la sola circostanza che la lavoratrice fosse stata in grado di attendere nella propria casa ai normali lavori domestici in quanto tale attività (che può giovarsi di pause e di riposi) non è equiparabile all'attività propria del rapporto di lavoro (subordinato) domestico (cfr. in tali sensi Cass. 5 dicembre 1990 n. 11656).

Per di più è evidente che il concetto normativo dell'impossibilità "assoluta e permanente" a svolgere qualsiasi attività lavorativa non può prescindere da una doverosa valutazione delle concrete condizioni di vita e delle attitudini lavorative dell'assicurato scaturenti dal suo effettivo stato psico-fisico, perché un riferimento meramente astratto alla possibilità di svolgere un qualsiasi lavoro porterebbe a negare il riconoscimento della pensione ordinaria di inabilità anche a coloro che, pur totalmente invalidi alla stregua delle regole della medicina legale, potrebbero - in particolari e fortunate condizioni del mercato occupazionale - svolgere una qualche attività lavorativa.

Per di più non può negarsi che una interpretrazione del dato normativo diretta a tralasciare qualsiasi considerazione delle attitudini del soggetto assicurato e delle sue specifiche condizioni di vita condurrebbe inoltre a delle conseguenze difficilmente giustificabili, perché significherebbe una penalizzazione - nel mondo del lavoro e nel rinvenimento dei mezzi economici di sopravvivenza - dei più deboli e di quanti si trovano in situazioni che rendono del tutto teorica la loro collocazione occupazionale a tutto vantaggio di quegli assicurati che, pur in presenza delle stesse menomazioni fisiche, conservino proprio per le loro condizioni di vita e per le loro attitudini, la possibilità di impiegare in qualche misura le loro pur ridottissime capacità lavorative.

Questa Corte ha di recente avuto occasione di statuire che l'art. 2 della legge 12 giugno 1984 n. 222 che attribuisce il diritto alla pensione di inabilità a chi versi in stato di impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività lavorativa, richiede che l'istante sia incapace di svolgere non solo il lavoro proprio ma qualsiasi altro lavoro. Detta inabilità deve essere valutata però con criterio concreto, ossia avendo riguardo al grado di istruzione ed alle attitudini fisiche e psicologiche generali del soggetto, onde applica non esattamente la norma il giudice che, accertata una grave infermità, neghi il diritto senza indicare, eventualmente sulla base di consulenza tecnica, il possibile impiego delle residue energie lavorative (in tali sensi cfr. Cass. 17 marzo 1994 n. 2558).

Non si rinvengono ragioni per discostarsi dal principio ora enunciato.

Da quanto sinora detto consegue che la sentenza del Tribunale di Grosseto va cassata in quanto i giudici di appello, sulla base di una non corretta interpretazione dell'art. 2 della legge n. 222 del 1984, hanno disconosciuto il diritto del Bellini alla pensione ordinaria di inabilità sul presupposto che lo stesso potesse svolgere "una qualche non gravosa attività lavorativa in un settore affine a quello agricolo già esercitato in precedenza, ed in un ambito spaziale non disagevole stante il possesso di un immobile con destinazione agricola".

La motivazione del Tribunale rileva una non esatta applicazione del dato normativo ed una motivazione del tutto generica ed insufficiente. Manca infatti nella sentenza impugnata qualsiasi riferimento concreto alla condizioni di vita dell'assicurato, alle sue condizioni psico-fisiche nonché al suo stato di istruzione al fine di individuare qualche concreta, seppur residua, possibilità lavorativa dell'assicurato. A tale riguardo va sottolineato come la decisione censurata sembra ricollegare la possibilità dello svolgimento di una attività lavorativa da parte del Bellini unicamente al possesso "di un immobile con destinazione agricola", senza però specificare in alcun modo quale genere di lavoro proficuo il Bellini fosse in grado di svolgere in concreto.

La causa va pertanto rimessa ad altro Tribunale, che si designa in quello di Siena, che procederà ad un nuovo giudizio sulla base dei principi innanzi enunciati.

Al giudice di rinvio viene altresì rimessa la statuizione sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa anche per le spese al Tribunale di Siena.

Così deciso in Roma il 22 settembre 1994.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 MARZO 1995.

Cassazione Civile Sent. n. 7212 del 30-05-2000

Svolgimento del processo

Giovanni Di Grassi chiede, sulla base di un unico motivo di ricorso, la cassazione della sentenza con la quale il Tribunale di Bari ha respinto l'appello proposto contro la sentenza del Pretore, di rigetto della domanda proposta nei confronti dell'Inps per ottenere la prestazione previdenziale della pensione di inabilità.

Il Tribunale ha ritenuto che, sulla base degli accertamenti del consulente tecnico nominato nel primo grado del giudizio, l'assicurato era risultato affetto da malattie che ne riducevano la capacità di lavoro del 90%, ancorché non potesse escludersi un'evoluzione successiva tale da renderlo in un prossimo futuro completamente inabile, sicché non poteva, allo stato, considerarsi sussistente l'assoluta impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa.

L'Inps si è costituita mediante deposito della procura speciale ai difensori, ma non ha partecipato all'udienza di discussione

Motivi della decisione

Con l'unico motivo di ricorso - con il quale si denunzia violazione e falsa applicazione degli art. 2, comma 1, e 8 della legge 12 giugno 1984, n. 222, e omessa motivazione su punto decisivo - l'assicurato deduce che il riferimento ad una percentuale non è sufficiente a fondare il complesso giudizio in ordine alla possibilità o impossibilità di svolgere qualsiasi attività, giudizio che richiede un accertamento in concreto dell'esistenza delle condizioni per collocare utilmente le residue energie lavorative sul mercato del lavoro.

La Corte giudica fondato il ricorso.

L'art. 2 l. 222/1984 attribuisce il diritto alla pensione di inabilità all'assicurato che versi in stato d'impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività lavorativa. Questo significa certamente che l'assicurato deve essere incapace di svolgere non solo il lavoro proprio, ma anche qualsiasi altro lavoro. Ma, come ha più volte precisato la giurisprudenza della Corte, siffatta inabilità deve tuttavia essere valutata con criterio concreto, ossia avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto, in modo da verificare la permanenza di una capacità a svolgere attività idonee a procurargli una fonte di guadagno effettivo, avuto riguardo al parametro di cui all'art. 36 Cost. (cfr., ex plurimis, Cass. 17 marzo 1994, n. 2558; 4 agosto 1994, n. 7222; 29 aprile 1998, n. 4396).

Al suesposto principio di diritto non si è uniformato il Tribunale, essendo pervenuto all'esito di rigetto della domanda sulla base del (solo) criterio astratto della riduzione della capacità lavorativa nella percentuale del 90% e non del 100%.

Al riguardo, va rilevato che la sentenza impugnata riferisce, sulla base degli accertamenti del consulente tecnico, che l'assicurato svolgeva l'attività lavorativa di venditore ambulante e che, accanto ad altre infermità di scarso significato, era affetto da sindrome ansiosa depressiva, tale da rendere il soggetto abulico, lento nei movimenti, scarsamente reattivo. Orbene, avendo il giudice di merito dichiarato di condividere il giudizio conclusivo del consulente, secondo cui la capacità di lavoro si presentava ridotta in misura assai prossima alla soglia del 100% (90% e per di più con l'accenno alla possibilità di un non lontano raggiungimento della soglia del 100%, ove le terapie praticate non sortissero effetti), avrebbe dovuto accertare specificamente che la residua capacità lavorativa, in astratto riconosciuta al soggetto, fosse tale da consentirgli l'espletamento di attività lavorative di un certo tipo e tali da procurargli un guadagno non simbolico.

É necessario, quindi, la cassazione della sentenza con rinvio ad altro giudice di merito per un nuovo esame in ordine alla sussistenza della possibilità o impossibilità di Giovanni Di Grassi di svolgere una qualsiasi attività lavorativa secondo i criteri sopra precisati.

La causa va rinviata ad altro tribunale, designato in dispositivo, che giudicherà in composizione collegiale, trattandosi di controversia pendente alla data del 24 maggio 1999, in relazione alla quale l'appello è stato proposto (indipendentemente dalla data dell'eventuale riassunzione del giudizio a seguito del rinvio) prima del 31 dicembre 1999 (art. 134-bis d.lgs. 51/1998, inserito dall'art. 2, comma 3, del d.l. 145/1999, convertito in l. 234/1999).

Il giudice del rinvio provvederà altresì a regolare delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per il regolamento delle spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Trani in composizione collegiale.

Così deciso in Roma, il 29 febbraio 2000.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 30 MAG. 2000