L'addebito nella Separazione
La situazione di crisi del rapporto matrimoniale deve tuttavia essere valutata
anche con riferimento all’eventuale violazione, da parte di uno o di ambedue i
coniugi, dei doveri derivanti dal matrimonio stesso, così come stabiliti
dall’art. 143 c. c. (diritto – dovere reciproco di fedeltà, di assistenza
morale e materiale, di collaborazione nell’interesse della famiglia e di
coabitazione).
Il giudice, infatti, a norma dell’art. 151, comma 2, c. c., pronunciando la
separazione, può dichiarare, ove ne ricorrano le circostanze e vi sia
un’espressa richiesta di parte in tal senso, a quale dei coniugi sia
addebitabile la separazione, tenuto conto del suo comportamento contrario ai
suddetti doveri che derivano dal matrimonio, avuto anche riguardo al
comportamento dell’altro. Peraltro il giudice, qualora accerti che si sia
verificata, durante la convivenza matrimoniale e prima della proposizione della
domanda di separazione, una violazione dei doveri nascenti dal matrimonio,
potrà ritenere detta violazione ininfluente ai fini dell’addebitabilità della
separazione solo quando abbia rigorosamente rilevato il carattere meramente
formale della convivenza, tale che nessuna violazione dei doveri coniugali
avrebbe potuto effettivamente cagionare l’intollerabilità del rapporto
matrimoniale. In sede giudiziale deve quindi essere verificata la sussistenza
di un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi
dell’intollerabilità della convivenza, concepita dal nostro legislatore come
condizione obiettiva della separazione. Inoltre si rammenta che ogni
valutazione del giudice circa l’imputabilità della crisi coniugale al
comportamento del marito o della moglie non può prescindere da una valutazione
comparativa delle condotte tenute dai due coniugi, al fine di accertare se
l’una possa dirsi giustificata dall’altra, purché si tratti di una reazione
immediata e proporzionata ad un torto ricevuto. Nulla osta, peraltro, ad
un’eventuale dichiarazione giudiziale di addebito della separazione a carico di
entrambi i coniugi, se richiesto.
I principali effetti che conseguono alla pronuncia di addebito si producono sul
piano successorio ed in materia di fissazione dell’assegno. Infatti, a norma
degli artt. 548 e 585 c. c., il coniuge separato vanta gli stessi diritti a
causa di morte spettanti al coniuge non separato, a condizione che la
separazione non sia stata al primo addebitata con sentenza definitiva. In
quest’ultimo caso, egli ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio,
commisurato alle sostanze ereditarie ed alla qualità ed al numero degli eredi,
se al momento della morte del coniuge godeva degli alimenti a carico del
defunto, peraltro in misura non superiore ad essi. Si sottolinea ad ogni modo
che gli alimenti non sono da confondere con l’assegno di mantenimento,
potendone avere diritto solo colui che non sia in grado di soddisfare
autonomamente i propri bisogni elementari per la sopravvivenza. Infatti, ai
sensi dell’art. 156, comma 1, c. c., il coniuge cui sia stata addebitata la
separazione non può legittimamente pretendere dall’altro alcun assegno di
mantenimento, qualora non abbia adeguati redditi propri. Quest’ultimo
contributo spetta soltanto a chi non abbia determinato con il proprio esclusivo
comportamento l’intollerabilità della convivenza matrimoniale ed abbia pertanto
il diritto, nel caso in cui non possa provvedervi autonomamente, a conservare
il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Al fine di individuare in concreto quali condotte possano essere ritenute
dall’autorità giudiziaria idonee a determinare di per sé la rottura del vincolo
coniugale, basta dare un rapido sguardo alla giurisprudenza della Suprema Corte
di Cassazione formatasi sul punto.
Per quel che concerne, ad esempio, la violazione del dovere di fedeltà, i
giudici di legittimità hanno precisato che indubbiamente essa, se posta in
essere in maniera reiterata e tale da svilupparsi, se del caso, in una stabile
relazione extraconiugale, integra di norma una intollerabilità della
prosecuzione della convivenza (in tal senso, da ultimo, Cass. sent. n. 7859 del
2000). In particolare, anche l’infedeltà di uno dei coniugi rimasta allo stadio
di mero tentativo, magari per mancanza di corrispondenza da parte del terzo, è
suscettibile di integrare da sola una rilevante violazione dei doveri nascenti
dal matrimonio (cfr. Cass. sent. n. 9472 del 1999). Quel che infatti rileva
maggiormente, di solito, è la notorietà del tradimento, suscettibile di
provocare il discredito sociale dell’altro ed i pettegolezzi che conseguono
all’adulterio. Ad ogni modo, al giorno d’oggi la nozione di fedeltà cui si
ritiene di fare prevalentemente riferimento non si riduce esclusivamente alla
sfera fisico – sessuale, bensì si estende ad una più ampia fiducia e dedizione
reciproca che dovrebbe connotare i rapporti coniugali.
Sotto altro profilo, costituiscono fatti addebitabili quelli che ledono il
dovere coniugale di lealtà, come i maltrattamenti, le denigrazioni ovvero
l’incarico dato ad un terzo di rapinare il coniuge, nonché l’isolamento
(cosiddetto mobbing – Corte d’Appello di Torino 21 febbraio 2000),
l’imposizione di prestazioni sessuali anomale (Cass. sent. n. 8787 del 2002),
l’abbandono della casa coniugale senza giusti motivi e le vessazioni della
suocera (Cass. sent. n. 10648 del 1997), mentre non risultano rilevanti ai fini
dell’addebito l’adozione di usi e costumi familiari opposti a quelli della
famiglia di origine ed il mutamento di fede religiosa, purché non comporti
violazione specifica di uno dei doveri sanciti dal citato art. 143 c. c.
Infine, va precisato che la giurisprudenza della Cassazione non pare lasciare
adito a dubbi in ordine all’impossibilità per il coniuge che abbia subito da
parte dell’altro la violazione di uno o più dei doveri matrimoniali di
invocare, oltre al diritto all’assegno di mantenimento, ove ne ricorrano i
presupposti, la tutela risarcitoria ex art. 2043 c. c. per la commissione di un
illecito (Cass. sent. n. 3367 del 1993, per cui l’addebito della separazione
comporta solo gli effetti espressamente previsti dalla legge). In senso
contrario, tuttavia, si è schierato il Tribunale di Milano, che sia nel 1999
sia nel 2002 ha chiarito come in materia di danni da violazione dei doveri
coniugali non sembri sussistere alcuna deroga alla clausola generale di
responsabilità (“neminem laedere”) di cui all’art. 2043 c. c., dal momento che
ai doveri derivanti dal matrimonio deve indubbiamente riconoscersi natura
giuridica e non meramente morale (cfr. Trib. Milano sent. 10 febbraio 1999 e
sent. 4 giugno 2002).